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Perché tutto questo dolore? Questo è l\’interrogativo che il più delle volte esige una risposta quando proviamo molto dolore, quando attraversiamo una sofferenza, quando ci colpisce una tragedia.
Questa è la domanda che in quella soleggiata mattina di domenica ha colpito anche me. Era la Festa del papà e niente avrebbe presagito quello che stava per succedere. La mia bambina di soltanto pochi mesi si era appena svegliata e con le sue manine mi cercava nel letto. Il telefono era in modalità silenzioso e questo non ha saputo darmi nessuna preparazione con le ripetute chiamate mute. Il suono stridulo del campanello ha interrotto improvvisamente la dolcezza del risveglio, ha rovesciato tutta la mia vita, la nostra vita: un collega di mio marito mi aveva comunicato la notizia del suo incidente avvenuto sul lavoro, delle ambulanze al campo sportivo, e del volo al CTO di Careggi a Firenze.
E da qui è cominciata una vita diversa, fatta di interventi chirurgici, di sofferenza, di terapie, di sedia a rotelle, di sogni infranti e di speranze fortemente volute, lottate, vinte. Una vita vissuta nei corridoi d\’ospedale dove la nostra bambina ha imparato a camminare ma mio marito no.
\”Le piastrelle non danno una risposta\” sentii una voce dietro di me, mentre il mio sguardo in basso cercava di tenere dritti i contorni del pavimento ondeggiante lungo il corridoio. Piangevo. Mi girai e vidi un ragazzo in sedia a rotelle. \”Troppi giovani all\’unità spinale\” pensai, ma subito dopo mi resi conto che la sua presenza lì aveva un senso e che lui cercava di dare nuovi significati alla sua vita, e anche alla mia.
Il dolore non ha un perché ma è una via.
La sofferenza diventa un\’occasione di luce e una porta che apre alla comprensione di Dio e delle persone che vivono accanto a te. I mesi trascorsi all\’unita spinale hanno dato un nuovo significato alla mia vita che mi porterò dentro per sempre e che mi ha cambiato completamente.
Alla sera guardavo dalla mia stanza le luci della palestra dove mio marito faceva terapia occupazionale e davo un’ultima buona notte prima di addormentarmi con la mia bimba tra le braccia. A Villa Aurora mi avevano dato una stanza con veduta verso CTO.
A quei tempi Casa Aurora era solo un progetto e io alloggiavo al convitto IACB \”Villa Aurora\” per gli studenti con famiglie. Nei 8 mesi vissuti lì, ho conosciuto persone di grande umanità che hanno saputo trasmettermi il senso di una famiglia in un ambiente molto vicino, disponibile e tranquillo, mi hanno fatto sentire a casa lontano da casa, mi hanno aiutato ad affrontare le difficoltà e sollevato anche economicamente. La grande premura di Rosa – l’amministratrice, le crepes di Costi – il futuro pastore e la cordialità di Iwona – studentessa di medicina, erano ritagli di pace per una nuova vita.
Oggi Casa Aurora è una struttura nuova, molto più ampia, è una casa per ferie pensata per le famiglie che devono stare accanto ai propri cari. La struttura riesce a servire sempre meglio quelle persone che si trovano ad affrontare le numerose difficoltà che comporta l’allontanamento da casa e offre un servizio di ospitalità specializzato nell’accoglienza dei parenti dei malati ricoverati nel polo ospedaliero fiorentino.
Destinando il tuo 8×1000 all\’Opera sociale avventista contribuisci a sostenere le famiglie come la mia, che devono allontanarsi da casa per stare vicino a un familiare ricoverato.
Monica Untea
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